Il modello Svizzera per l'Europa
di Lino Terlizzi
Fonte: http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Mondo/2008/09/svizzera-modello-per-europa_2.shtml
Il «no» al Trattato europeo nel referendum irlandese del giugno scorso ha riaperto il dibattito sulle istituzioni dell'Unione Europea. Molti ora guardano alle misure della Ue per il rilancio del processo unitario. È possibile che i Paesi che costituiscono il nucleo centrale della Ue riescano in qualche modo a riattivare il processo di approvazione del Trattato, che rimane comunque complicato. Una reazione della Ue è in effetti opportuna. Ma sarebbe un errore non procedere contemporaneamente a una riflessione più profonda e di prospettiva, dopo i «no» degli elettori olandesi e francesi negli anni scorsi al progetto di Costituzione e dopo questo più recente «no» irlandese.
Volendo andare direttamente al punto centrale, si dovrebbe dire che hanno ragione quei commentatori, tra cui Norbert Walter, capo dell'Ufficio studi della Deutsche Bank, che consigliano di elvetizzare in una certa misura l'Unione Europea. Il riferimento alla Svizzera non è infondato e solo una storica insufficienza dei maggiori Paesi europei sul federalismo, favorita peraltro da un'altrettanto storica ritrosia elvetica, ha permesso sin qui l'assenza di un confronto concreto. È vero che la Svizzera non fa parte della Ue, ma la riflessione avviene sulle esperienze e non necessariamente sulle appartenenze. E poi la Confederazione elvetica ha rilevanti accordi bilaterali con la stessa Ue, a cui è vicina per geografia, economia, lingue.
In un'Unione Europea ormai a 27 i meccanismi decisionali di fondo dovranno cambiare, su questo molti sono d'accordo. Le difficoltà subentrano però quando si deve indicare una direzione di marcia. Considerando l'articolazione della realtà europea, appare ora ragionevole pensare a uno sviluppo federalista e non a ulteriori forme di accentramento. L'esperienza svizzera è rilevante per alcuni aspetti e uno emerge proprio sull'onda dei «no» nei referendum Ue: il binomio federalismo-democrazia diretta.
Per lasciarsi alle spalle sia il centralismo esasperato sia il localismo eccessivo, l'Unione Europea dovrebbe in effetti da un lato trovare forme decisionali al di fuori di un'unanimità ormai impossibile (come si fa a essere sempre d'accordo su tutto, quando si è in 27?) e su questo c'è un certo accordo almeno in teoria. Dall'altro, dovrebbe andare verso una ridefinizione dei poteri tra Ue e Stati aderenti, affiancata però dalla possibilità di indire referendum, anche come forma di bilanciamento a favore di realtà nazionali che potrebbero "subire" decisioni prese a maggioranza, seppure qualificata.
Detto questo, bisogna però precisare bene. Proprio l'esperienza elvetica, costruita in più di 700 anni, insegna che si può votare su tutto, ma seguendo una geografia precisa dei poteri decisionali. In Svizzera, nel concreto, un solo Cantone non può bloccare la Confederazione su una questione d'interesse nazionale o internazionale. Esistono referendum locali su questioni locali, referendum nazionali su questioni nazionali. Su alcuni capitoli di particolare rilievo, in Svizzera c'è la doppia maggioranza - dei votanti e dei Cantoni - che però è altra cosa, non è una sorta di diritto di veto locale come quello sin qui di fatto accordato a singoli Paesi della Ue.
I Paesi della Ue sono 27, i Cantoni della Confederazione sono 26. Se si paragonasse l'Irlanda a un Cantone elvetico, ebbene gli elettori irlandesi non avrebbero potuto fermare il Trattato europeo. Avrebbero avuto l'ultima parola su una questione riguardante solo l'Irlanda, questo sì, ma non su una questione di tutta la Ue. Se un capitolo riguarda l'intera Unione, allora dovrebbero essere tutti gli elettori della Ue a votare unitariamente, con maggioranza e minoranza a livello di Unione stessa. In caso di questioni molto rilevanti, come avviene in Svizzera, si potrebbe semmai definire per i referendum europei una doppia maggioranza, di elettori e di Stati. Garanzie per gli Stati non grandi e per le minoranze, non diritti di blocco a singoli Stati.
Certo, il binomio federalismo-democrazia diretta può far sorridere, può apparire utopico se rapportato alle dimensioni geografiche limitate della Svizzera e alle grandi difficoltà attuali della Ue. Anche la Ue stessa e l'euro erano però per molti utopie, all'inizio del cammino. Occorre trovare un percorso equilibrato, per uscire dalle secche in un quadro di decisioni democratiche. Non sembrano esservi molte alternative valide.
La Ue rispetto alla Svizzera ha una differenza e un tratto comune. La differenza è che la Ue è nata da alleanze economiche che si sono poi affacciate alla politica, mentre la Svizzera è nata da un'alleanza politica contro ingerenze esterne che si è poi tradotta anche in forza economica. Il tratto comune è il carattere costruttivo del federalismo, già realizzato in Svizzera e realizzabile da una Ue che decidesse di cambiare strada.
Al federalismo si può arrivare infatti sia con un percorso di "aggregazione" di realtà regionali o nazionali, sia con un percorso di "disaggregazione". Gli Stati Uniti presidenziali e la Svizzera parlamentare sono casi diversi, entrambi però di federalismo aggregante. Le autonomie accentuate accordate a regioni-Paesi della Spagna o della Gran Bretagna rappresentano invece casi di federalismo disaggreganti. Non si tratta di dare una connotazione positiva o negativa a un percorso o all'altro, l'importante è alla fine che siano riconosciuti i diritti delle popolazioni. In genere, però, il percorso aggregante ha oggettivamente qualche ostacolo in meno. Chi decide di fondare qualcosa e di mettersi insieme, pur rispettando le rispettive autonomie, lo può fare infatti contando su minori ostacoli. Chi deve ridefinire la propria partecipazione a uno Stato già consolidato incontra spesso maggiori difficoltà.
Il «no» al Trattato europeo nel referendum irlandese del giugno scorso ha riaperto il dibattito sulle istituzioni dell'Unione Europea. Molti ora guardano alle misure della Ue per il rilancio del processo unitario. È possibile che i Paesi che costituiscono il nucleo centrale della Ue riescano in qualche modo a riattivare il processo di approvazione del Trattato, che rimane comunque complicato. Una reazione della Ue è in effetti opportuna. Ma sarebbe un errore non procedere contemporaneamente a una riflessione più profonda e di prospettiva, dopo i «no» degli elettori olandesi e francesi negli anni scorsi al progetto di Costituzione e dopo questo più recente «no» irlandese.
Volendo andare direttamente al punto centrale, si dovrebbe dire che hanno ragione quei commentatori, tra cui Norbert Walter, capo dell'Ufficio studi della Deutsche Bank, che consigliano di elvetizzare in una certa misura l'Unione Europea. Il riferimento alla Svizzera non è infondato e solo una storica insufficienza dei maggiori Paesi europei sul federalismo, favorita peraltro da un'altrettanto storica ritrosia elvetica, ha permesso sin qui l'assenza di un confronto concreto. È vero che la Svizzera non fa parte della Ue, ma la riflessione avviene sulle esperienze e non necessariamente sulle appartenenze. E poi la Confederazione elvetica ha rilevanti accordi bilaterali con la stessa Ue, a cui è vicina per geografia, economia, lingue.
In un'Unione Europea ormai a 27 i meccanismi decisionali di fondo dovranno cambiare, su questo molti sono d'accordo. Le difficoltà subentrano però quando si deve indicare una direzione di marcia. Considerando l'articolazione della realtà europea, appare ora ragionevole pensare a uno sviluppo federalista e non a ulteriori forme di accentramento. L'esperienza svizzera è rilevante per alcuni aspetti e uno emerge proprio sull'onda dei «no» nei referendum Ue: il binomio federalismo-democrazia diretta.
Per lasciarsi alle spalle sia il centralismo esasperato sia il localismo eccessivo, l'Unione Europea dovrebbe in effetti da un lato trovare forme decisionali al di fuori di un'unanimità ormai impossibile (come si fa a essere sempre d'accordo su tutto, quando si è in 27?) e su questo c'è un certo accordo almeno in teoria. Dall'altro, dovrebbe andare verso una ridefinizione dei poteri tra Ue e Stati aderenti, affiancata però dalla possibilità di indire referendum, anche come forma di bilanciamento a favore di realtà nazionali che potrebbero "subire" decisioni prese a maggioranza, seppure qualificata.
Detto questo, bisogna però precisare bene. Proprio l'esperienza elvetica, costruita in più di 700 anni, insegna che si può votare su tutto, ma seguendo una geografia precisa dei poteri decisionali. In Svizzera, nel concreto, un solo Cantone non può bloccare la Confederazione su una questione d'interesse nazionale o internazionale. Esistono referendum locali su questioni locali, referendum nazionali su questioni nazionali. Su alcuni capitoli di particolare rilievo, in Svizzera c'è la doppia maggioranza - dei votanti e dei Cantoni - che però è altra cosa, non è una sorta di diritto di veto locale come quello sin qui di fatto accordato a singoli Paesi della Ue.
I Paesi della Ue sono 27, i Cantoni della Confederazione sono 26. Se si paragonasse l'Irlanda a un Cantone elvetico, ebbene gli elettori irlandesi non avrebbero potuto fermare il Trattato europeo. Avrebbero avuto l'ultima parola su una questione riguardante solo l'Irlanda, questo sì, ma non su una questione di tutta la Ue. Se un capitolo riguarda l'intera Unione, allora dovrebbero essere tutti gli elettori della Ue a votare unitariamente, con maggioranza e minoranza a livello di Unione stessa. In caso di questioni molto rilevanti, come avviene in Svizzera, si potrebbe semmai definire per i referendum europei una doppia maggioranza, di elettori e di Stati. Garanzie per gli Stati non grandi e per le minoranze, non diritti di blocco a singoli Stati.
Certo, il binomio federalismo-democrazia diretta può far sorridere, può apparire utopico se rapportato alle dimensioni geografiche limitate della Svizzera e alle grandi difficoltà attuali della Ue. Anche la Ue stessa e l'euro erano però per molti utopie, all'inizio del cammino. Occorre trovare un percorso equilibrato, per uscire dalle secche in un quadro di decisioni democratiche. Non sembrano esservi molte alternative valide.
La Ue rispetto alla Svizzera ha una differenza e un tratto comune. La differenza è che la Ue è nata da alleanze economiche che si sono poi affacciate alla politica, mentre la Svizzera è nata da un'alleanza politica contro ingerenze esterne che si è poi tradotta anche in forza economica. Il tratto comune è il carattere costruttivo del federalismo, già realizzato in Svizzera e realizzabile da una Ue che decidesse di cambiare strada.
Al federalismo si può arrivare infatti sia con un percorso di "aggregazione" di realtà regionali o nazionali, sia con un percorso di "disaggregazione". Gli Stati Uniti presidenziali e la Svizzera parlamentare sono casi diversi, entrambi però di federalismo aggregante. Le autonomie accentuate accordate a regioni-Paesi della Spagna o della Gran Bretagna rappresentano invece casi di federalismo disaggreganti. Non si tratta di dare una connotazione positiva o negativa a un percorso o all'altro, l'importante è alla fine che siano riconosciuti i diritti delle popolazioni. In genere, però, il percorso aggregante ha oggettivamente qualche ostacolo in meno. Chi decide di fondare qualcosa e di mettersi insieme, pur rispettando le rispettive autonomie, lo può fare infatti contando su minori ostacoli. Chi deve ridefinire la propria partecipazione a uno Stato già consolidato incontra spesso maggiori difficoltà.
Il «no» al Trattato europeo nel referendum irlandese del giugno scorso ha riaperto il dibattito sulle istituzioni dell'Unione Europea. Molti ora guardano alle misure della Ue per il rilancio del processo unitario. È possibile che i Paesi che costituiscono il nucleo centrale della Ue riescano in qualche modo a riattivare il processo di approvazione del Trattato, che rimane comunque complicato. Una reazione della Ue è in effetti opportuna. Ma sarebbe un errore non procedere contemporaneamente a una riflessione più profonda e di prospettiva, dopo i «no» degli elettori olandesi e francesi negli anni scorsi al progetto di Costituzione e dopo questo più recente «no» irlandese.
Volendo andare direttamente al punto centrale, si dovrebbe dire che hanno ragione quei commentatori, tra cui Norbert Walter, capo dell'Ufficio studi della Deutsche Bank, che consigliano di elvetizzare in una certa misura l'Unione Europea. Il riferimento alla Svizzera non è infondato e solo una storica insufficienza dei maggiori Paesi europei sul federalismo, favorita peraltro da un'altrettanto storica ritrosia elvetica, ha permesso sin qui l'assenza di un confronto concreto. È vero che la Svizzera non fa parte della Ue, ma la riflessione avviene sulle esperienze e non necessariamente sulle appartenenze. E poi la Confederazione elvetica ha rilevanti accordi bilaterali con la stessa Ue, a cui è vicina per geografia, economia, lingue.
In un'Unione Europea ormai a 27 i meccanismi decisionali di fondo dovranno cambiare, su questo molti sono d'accordo. Le difficoltà subentrano però quando si deve indicare una direzione di marcia. Considerando l'articolazione della realtà europea, appare ora ragionevole pensare a uno sviluppo federalista e non a ulteriori forme di accentramento. L'esperienza svizzera è rilevante per alcuni aspetti e uno emerge proprio sull'onda dei «no» nei referendum Ue: il binomio federalismo-democrazia diretta.
Per lasciarsi alle spalle sia il centralismo esasperato sia il localismo eccessivo, l'Unione Europea dovrebbe in effetti da un lato trovare forme decisionali al di fuori di un'unanimità ormai impossibile (come si fa a essere sempre d'accordo su tutto, quando si è in 27?) e su questo c'è un certo accordo almeno in teoria. Dall'altro, dovrebbe andare verso una ridefinizione dei poteri tra Ue e Stati aderenti, affiancata però dalla possibilità di indire referendum, anche come forma di bilanciamento a favore di realtà nazionali che potrebbero "subire" decisioni prese a maggioranza, seppure qualificata.
Detto questo, bisogna però precisare bene. Proprio l'esperienza elvetica, costruita in più di 700 anni, insegna che si può votare su tutto, ma seguendo una geografia precisa dei poteri decisionali. In Svizzera, nel concreto, un solo Cantone non può bloccare la Confederazione su una questione d'interesse nazionale o internazionale. Esistono referendum locali su questioni locali, referendum nazionali su questioni nazionali. Su alcuni capitoli di particolare rilievo, in Svizzera c'è la doppia maggioranza - dei votanti e dei Cantoni - che però è altra cosa, non è una sorta di diritto di veto locale come quello sin qui di fatto accordato a singoli Paesi della Ue.
I Paesi della Ue sono 27, i Cantoni della Confederazione sono 26. Se si paragonasse l'Irlanda a un Cantone elvetico, ebbene gli elettori irlandesi non avrebbero potuto fermare il Trattato europeo. Avrebbero avuto l'ultima parola su una questione riguardante solo l'Irlanda, questo sì, ma non su una questione di tutta la Ue. Se un capitolo riguarda l'intera Unione, allora dovrebbero essere tutti gli elettori della Ue a votare unitariamente, con maggioranza e minoranza a livello di Unione stessa. In caso di questioni molto rilevanti, come avviene in Svizzera, si potrebbe semmai definire per i referendum europei una doppia maggioranza, di elettori e di Stati. Garanzie per gli Stati non grandi e per le minoranze, non diritti di blocco a singoli Stati.
Certo, il binomio federalismo-democrazia diretta può far sorridere, può apparire utopico se rapportato alle dimensioni geografiche limitate della Svizzera e alle grandi difficoltà attuali della Ue. Anche la Ue stessa e l'euro erano però per molti utopie, all'inizio del cammino. Occorre trovare un percorso equilibrato, per uscire dalle secche in un quadro di decisioni democratiche. Non sembrano esservi molte alternative valide.
La Ue rispetto alla Svizzera ha una differenza e un tratto comune. La differenza è che la Ue è nata da alleanze economiche che si sono poi affacciate alla politica, mentre la Svizzera è nata da un'alleanza politica contro ingerenze esterne che si è poi tradotta anche in forza economica. Il tratto comune è il carattere costruttivo del federalismo, già realizzato in Svizzera e realizzabile da una Ue che decidesse di cambiare strada.
Al federalismo si può arrivare infatti sia con un percorso di "aggregazione" di realtà regionali o nazionali, sia con un percorso di "disaggregazione". Gli Stati Uniti presidenziali e la Svizzera parlamentare sono casi diversi, entrambi però di federalismo aggregante. Le autonomie accentuate accordate a regioni-Paesi della Spagna o della Gran Bretagna rappresentano invece casi di federalismo disaggreganti. Non si tratta di dare una connotazione positiva o negativa a un percorso o all'altro, l'importante è alla fine che siano riconosciuti i diritti delle popolazioni. In genere, però, il percorso aggregante ha oggettivamente qualche ostacolo in meno. Chi decide di fondare qualcosa e di mettersi insieme, pur rispettando le rispettive autonomie, lo può fare infatti contando su minori ostacoli. Chi deve ridefinire la propria partecipazione a uno Stato già consolidato incontra spesso maggiori difficoltà.
Il «no» al Trattato europeo nel referendum irlandese del giugno scorso ha riaperto il dibattito sulle istituzioni dell'Unione Europea. Molti ora guardano alle misure della Ue per il rilancio del processo unitario. È possibile che i Paesi che costituiscono il nucleo centrale della Ue riescano in qualche modo a riattivare il processo di approvazione del Trattato, che rimane comunque complicato. Una reazione della Ue è in effetti opportuna. Ma sarebbe un errore non procedere contemporaneamente a una riflessione più profonda e di prospettiva, dopo i «no» degli elettori olandesi e francesi negli anni scorsi al progetto di Costituzione e dopo questo più recente «no» irlandese.
Volendo andare direttamente al punto centrale, si dovrebbe dire che hanno ragione quei commentatori, tra cui Norbert Walter, capo dell'Ufficio studi della Deutsche Bank, che consigliano di elvetizzare in una certa misura l'Unione Europea. Il riferimento alla Svizzera non è infondato e solo una storica insufficienza dei maggiori Paesi europei sul federalismo, favorita peraltro da un'altrettanto storica ritrosia elvetica, ha permesso sin qui l'assenza di un confronto concreto. È vero che la Svizzera non fa parte della Ue, ma la riflessione avviene sulle esperienze e non necessariamente sulle appartenenze. E poi la Confederazione elvetica ha rilevanti accordi bilaterali con la stessa Ue, a cui è vicina per geografia, economia, lingue.
In un'Unione Europea ormai a 27 i meccanismi decisionali di fondo dovranno cambiare, su questo molti sono d'accordo. Le difficoltà subentrano però quando si deve indicare una direzione di marcia. Considerando l'articolazione della realtà europea, appare ora ragionevole pensare a uno sviluppo federalista e non a ulteriori forme di accentramento. L'esperienza svizzera è rilevante per alcuni aspetti e uno emerge proprio sull'onda dei «no» nei referendum Ue: il binomio federalismo-democrazia diretta.
Per lasciarsi alle spalle sia il centralismo esasperato sia il localismo eccessivo, l'Unione Europea dovrebbe in effetti da un lato trovare forme decisionali al di fuori di un'unanimità ormai impossibile (come si fa a essere sempre d'accordo su tutto, quando si è in 27?) e su questo c'è un certo accordo almeno in teoria. Dall'altro, dovrebbe andare verso una ridefinizione dei poteri tra Ue e Stati aderenti, affiancata però dalla possibilità di indire referendum, anche come forma di bilanciamento a favore di realtà nazionali che potrebbero "subire" decisioni prese a maggioranza, seppure qualificata.
Detto questo, bisogna però precisare bene. Proprio l'esperienza elvetica, costruita in più di 700 anni, insegna che si può votare su tutto, ma seguendo una geografia precisa dei poteri decisionali. In Svizzera, nel concreto, un solo Cantone non può bloccare la Confederazione su una questione d'interesse nazionale o internazionale. Esistono referendum locali su questioni locali, referendum nazionali su questioni nazionali. Su alcuni capitoli di particolare rilievo, in Svizzera c'è la doppia maggioranza - dei votanti e dei Cantoni - che però è altra cosa, non è una sorta di diritto di veto locale come quello sin qui di fatto accordato a singoli Paesi della Ue.
I Paesi della Ue sono 27, i Cantoni della Confederazione sono 26. Se si paragonasse l'Irlanda a un Cantone elvetico, ebbene gli elettori irlandesi non avrebbero potuto fermare il Trattato europeo. Avrebbero avuto l'ultima parola su una questione riguardante solo l'Irlanda, questo sì, ma non su una questione di tutta la Ue. Se un capitolo riguarda l'intera Unione, allora dovrebbero essere tutti gli elettori della Ue a votare unitariamente, con maggioranza e minoranza a livello di Unione stessa. In caso di questioni molto rilevanti, come avviene in Svizzera, si potrebbe semmai definire per i referendum europei una doppia maggioranza, di elettori e di Stati. Garanzie per gli Stati non grandi e per le minoranze, non diritti di blocco a singoli Stati.
Certo, il binomio federalismo-democrazia diretta può far sorridere, può apparire utopico se rapportato alle dimensioni geografiche limitate della Svizzera e alle grandi difficoltà attuali della Ue. Anche la Ue stessa e l'euro erano però per molti utopie, all'inizio del cammino. Occorre trovare un percorso equilibrato, per uscire dalle secche in un quadro di decisioni democratiche. Non sembrano esservi molte alternative valide.
La Ue rispetto alla Svizzera ha una differenza e un tratto comune. La differenza è che la Ue è nata da alleanze economiche che si sono poi affacciate alla politica, mentre la Svizzera è nata da un'alleanza politica contro ingerenze esterne che si è poi tradotta anche in forza economica. Il tratto comune è il carattere costruttivo del federalismo, già realizzato in Svizzera e realizzabile da una Ue che decidesse di cambiare strada.
Al federalismo si può arrivare infatti sia con un percorso di "aggregazione" di realtà regionali o nazionali, sia con un percorso di "disaggregazione". Gli Stati Uniti presidenziali e la Svizzera parlamentare sono casi diversi, entrambi però di federalismo aggregante. Le autonomie accentuate accordate a regioni-Paesi della Spagna o della Gran Bretagna rappresentano invece casi di federalismo disaggreganti. Non si tratta di dare una connotazione positiva o negativa a un percorso o all'altro, l'importante è alla fine che siano riconosciuti i diritti delle popolazioni. In genere, però, il percorso aggregante ha oggettivamente qualche ostacolo in meno. Chi decide di fondare qualcosa e di mettersi insieme, pur rispettando le rispettive autonomie, lo può fare infatti contando su minori ostacoli. Chi deve ridefinire la propria partecipazione a uno Stato già consolidato incontra spesso maggiori difficoltà.
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